#restateacasa, #restiamoacasa.

Casa quale luogo protetto, rifugio, garanzia di salute, per lo meno fisica, in un tempo, quello del COVID-19, in cui l’esterno, il “fuori” sembra drammaticamente foriero di pericolo, di ri-schio di contagio, di attacco alla sopravvivenza.

Restare a casa è più sicuro, è meglio, protegge…

Tuttavia, quando ci si riferisce alla salute mentale, quando si ha a che fare con persone con diagnosi psichiatriche, quel luogo che nell’immaginario collettivo risponde a bisogni di protezione fisica, psichica, relazionale permettendo la sopravvivenza, non è facilmente collocabile.

Per i pazienti in carico ai Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, utenti dei Servizi Domiciliari, dei Centri Diurni o delle Comunità Alloggio, quale sia il luogo che permette la sopravvivenza fisica e psichica, è un argomento che meriterebbe lunghe riflessioni.

Nella loro storia di cura, molti di questi pazienti hanno probabilmente, con estrema fatica loro e dei loro curanti, trovato luoghi, relazioni, legami, dove simbolicamente è stato depositato il “residuo manicomiale”, ovvero quel residuo incomunicabile presente in ogni essere umano, quella parte che non comunica, per dirla con Winnicott, quell’aspetto della personalità che si ritrae dalla relazione umana e sociale anche a prezzo di rischiare tutti i giorni la morte psichica e fisica.

Ecco quindi che #restateacasa ha significato, per molti di loro in queste settimane di emergenza sanitaria, interrompere, tagliare, lacerare, legami di cura tessuti magari in anni di faticoso lavoro con pazienza e dedizione del personale curante.

Chiudere i Centri Diurni, seppur necessario per tutelare utenti e pazienti dal rischio di contagio, ha di fatto distrutto violentemente delicati “contenitori mentali”, luoghi simbolici di accoglienza dove poter depositare quella irrimediabile sofferenza umana mai elaborata che sta alla base di ogni patologia psichica grave.

Che fare allora?

Stiamo vivendo un tempo collettivo tutto nuovo, senza analoghi precedenti a tutti i livelli, nel quale, privi di know how alle spalle né tantomeno di letteratura in merito, dobbiamo pensare assieme e giorno per giorno alle soluzioni migliori.

Forse una strategia “sufficientemente buona” rispetto a questo tema sarebbe quella di presidiare, per questi pazienti fragili, una CASA MENTALE: relazioni e legami di cura che possano temporaneamente sopperire ai luoghi fisici che sono necessariamente venuti meno a causa dell’emergenza e mantenere “fili di collegamento” con quel tessuto di cura generativo e progettuale al momento sospeso.

Questo concetto dovrebbe essere il faro per curanti e decisori, il come si declini poi può variare di volta in volta: dal potenziamento reale e significativo della rete di servizi domiciliari sul territorio, all’attivazione della tecnologia che permetta, laddove vi siano competenze tecnologiche, di rimanere connessi, alla promozione e il supporto della solidarietà di vicinato, quale sostegno per i pazienti e le loro famiglie attraverso azioni di buona cittadinanza attenta alle fragilità.

#tuttoandràbene e speriamo di poter uscire da questo “tempo strano” con una consapevolezza più matura verso il sociale e i cittadini più fragili.

 

Chiara Bosio, psicosocioanalista, Responsabile delle Comunità Alloggio del GranCan Hotel Ristorante