La campagna di comunicazione “Occhio al luogo comune“, lanciata dal nostra cooperativa in occasione del trentesimo anniversario di attività, gioca sulla polisemia dell’espressione “luoghi comuni”: partendo dagli stereotipi che molto spesso popolano le conversazioni di tutti i giorni proponiamo, con un linguaggio verbale e visivo ironico e accattivante, un rovesciamento di ottica, che trasformi i luoghi comuni intesi come stereotipi in luoghi comuni intesi al contrario come spazi attraversati e attraversabili da tutte le differenze.

Saranno una decina le vignette illustrate o animate che popoleranno i social e il nostro sito: in ognuna la rappresentazione di un “luogo comune”, sia verbale che fisico, in cui è frequente imbattersi nella vita quotidiana, espresso da due voci delle quali è impossibile indovinare il genere, a dimostrazione che gli stereotipi sono diffusi in maniera trasversale nella società, tanto che anche le stesse donne (o uomini) possono essere inconsapevoli portatrici di luoghi comuni che le riguardano.

Dal commento sull’aspetto fisico della cameriera all’interno di un bar al considerare scontato che sia la donna a prendersi cura di figli e genitori anziani, fino allo “stupore” per la bravura di un team femminile in un ambiente di lavoro, ma dall’altra parte anche la perplessità sulle competenze di un educatore di asilo nido perché maschio.

Un educatore maschio al nido sarà in grado di cambiare un pannolino?
Occhio al luogo comune!
La nostra cooperativa, attiva da sempre nei servizi all’infanzia, da anni lavora per inserire con continuità educatori maschi negli asili nido.
Perché per noi è fondamentale avere delle équipe educative composte da uomini e donne?
I bambini e le bambine sono a contatto ogni giorno con una figura maschile che svolge un’occupazione tradizionalmente femminile: questo non può che favorire, a lungo andare, la consapevolezza che i lavori di cura, anche nella fascia dell’infanzia, possono essere scelti anche dagli uomini e viceversa i percorsi formativi STEM (scientifici, matematici, tecnologici…) da sempre più ragazze.
L’educazione e la cura di bambini e bambine non è una questione, di conseguenza, prettamente femminile e non può che arricchirsi di un punto di vista maschile. Una cultura delle differenze include tutti i punti di vista valorizzandoli.
– Le famiglie, gli adulti di oggi, a contatto con un’équipe educativa mista, possono trarne stimoli a loro volta, anche ripensando i ruoli familiari tradizionalmente suddivisi in base al genere.
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Più che a un luogo comune qui siamo di fronte alla realtà dei fatti: la gestione della famiglia, dei genitori anziani, il ruolo di caregiver nei confronti di familiari fragili sono compiti spesso delegati alla donna (madre, figlia, sorella…).

Questa organizzazione delle responsabilità familiari è cristallizzata nella nostra società in base al genere e ha delle conseguenze sociali e culturali importanti:

  • Le donne che si fanno completamente carico delle responsabilità di cura familiare hanno più difficoltà a entrare o a rimanere nel mercato del lavoro. L’Italia, infatti, risulta essere il paese dell’Unione europea con più donne inattive a causa delle responsabilità di cura (le persone inattive sono quelle non attivamente alla ricerca di lavoro, diversamente da quelle considerate “disoccupate”), ragione dell’inattività nel 39,4% dei casi.
  • Quando riescono a guadagnarsi una posizione lavorativa, questa viene mantenuta con un dispendio di energia, il cosiddetto “carico mentale”, spesso molto grande

Sarebbe importante dunque riflettere collettivamente sullo squilibrio che questa organizzazione della società comporta, sollecitando per esempio rappresentazioni mediatiche delle famiglie più equilibrate, mettendo in discussione i modelli familiari tradizionali attraverso una cultura che spinga anche gli uomini a occuparsi a pieno titolo di figli o familiari, tematizzando il lavoro non retribuito nella sfera privata e, prima ancora, pensando a un’educazione di genere adeguata, equilibrata e nuova da proporre ai nostri bambini e alle nostre bambine.

Dall’altro lato favorire l’ingresso e la permanenza nel mondo del lavoro delle donne deve continuare a essere uno degli obiettivi della politica e delle organizzazioni, attraverso reali politiche di conciliazione di vita e lavoro.

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Avere un capo donna significa avere a che fare quotidianamente con l’emotività?
Occhio al luogo comune!

Gli stereotipi che accompagnano le leadership femminili sono molti e complessi da decostruire.

Una leadership efficace è spesso descritta con caratteristiche specifiche: assertività, competenza, ambizione. Tutte qualità difficilmente riconosciute a una lavoratrice, che invece, in maniera stereotipata, viene spesso lodata per le capacità relazionali, l’empatia, la cura e l’accoglienza.

Individuare sempre questi tratti nelle donne lavoratrici ha due conseguenze:

  • le rende incompatibili con la possibilità di guidare un’organizzazione (empatia e leadership nell’immaginario comune non vanno d’accordo)
  • le reali competenze non vengono mai a galla, rimanendo sempre nascoste dietro “l’emotività”.

Questo genera il citatissimo “soffitto di cristallo“, una metafora famosa che rappresenta tutte le barriere invisibili che complicano la crescita in ambito professionale delle lavoratrici.

E se invece di fermarci a luoghi comuni e stereotipi riconducibili al genere ci esercitassimo tutti e tutte quotidianamente a individuare le reali qualità di una persona?

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Stai cercando Sofia, quella alta, bionda e bella?
Occhio al luogo comune!

Lo scambio verbale della vignetta, cui sicuramente tutti e tutte noi avremo assistito almeno una volta, può essere problematico sia nella domanda che nella risposta.

Nelle relazioni lavorative formali succede spesso di chiamare le donne solo per nome e non con nome e cognome (e titolo professionale!). Quale può essere il risultato? Da una parte che ci si dimentica subito di loro e dall’altro diminuisce immediatamente la percezione della professionalità di quella persona.

Nella risposta del nostro dialogo invece sono i riferimenti fisici e il giudizio (“bella”) a essere fuori luogo: un commento estetico per parlare di una collega o di una persona con cui stiamo lavorando è scorretto e ancora una volta sminuisce la professionalità della persona.

Come avrebbe potuto essere?

Vi proponiamo questa versione:
– Buongiorno, cercavo Sofia Rossi
– Buongiorno, la collega arriva subito, è stata appena avvisata

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Dall’inizio dell’anno 104 donne sono state uccise, per lo più in ambito familiare.

La sfida culturale inizia molto prima e ha a che fare con tutte le sfaccettature della violenza di genere, visibile e invisibile.

È necessario per esempio continuare a finanziare il prezioso lavoro dei centri antiviolenza sul territorio, proporre percorsi educativi per bambini e bambine liberi da stereotipi e portatori della valorizzazione delle differenze, interrogarsi in profondità sulle parole che scegliamo per parlare delle donne e degli abusi di cui sono vittime, chiedere a gran voce misure per abbattere il divario retributivo di genere e investimenti su un sistema di welfare che sganci prima di tutto le donne dalle funzioni di cura e dal lavoro domestico non retribuito.

E ancora: è fondamentale riconoscere tutti i tipi di molestia che sono purtroppo ancora troppo diffusi. Non possiamo più minimizzare o etichettare una percezione come esagerata, normalizzando lo sguardo di chi agisce quella violenza. Dobbiamo cambiare prospettiva e iniziare a riconoscere quel comportamento come opprimente e non richiesto.

Alla giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne che ricorre oggi 25 novembre, dedichiamo una delle vignette della nostra campagna “Occhio al luogo comune”, consapevoli che lavorare sull’abbattimento di stereotipi e luoghi comuni è un tassello fondamentale per combattere un problema strutturale della nostra società. Un impegno su cui la nostra organizzazione continua a lavorare anche oltre il 25 novembre.

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È sempre “lei” che si deve prendere il part time?
Occhio al luogo comune!

La possibilità di lavorare con orario ridotto è da sempre considerato un ottimo strumento di conciliazione tra il tempo familiare e il tempo del lavoro. Ed è effettivamente così: “la maggiore diffusione del lavoro a tempo parziale ha contribuito in maniera rilevante alla crescita dell’occupazione femminile. La lavoratrice con impiego part time ha più tempo libero dal lavoro a disposizione e con maggiore flessibilità e l’impresa ha il vantaggio di una maggiore flessibilità organizzativa”*.

Il risvolto della medaglia è la cosiddetta “child penalty”, ovvero la “penalizzazione da figli piccoli”:

“le lavoratrici part time beneficiano di un minore introito economico e rischiano di essere impiegate in mansioni di minor profilo, di avere meno opportunità formative e di carriera e una maggiore precarietà nella posizione lavorativa.”**

In una situazione già penalizzante (soffitto di cristallo, gender pay gap – divario retributivo di genere, carico mentale, child penality) anche il lavoro a tempo parziale rischia di non essere più una soluzione sufficiente a supportare il lavoro femminile.

Come si esce da questo vicolo cieco?

Le soluzioni sono molteplici e integrate, dal potenziamento dei servizi all’infanzia alla crescita culturale in termini di divario di genere in famiglia: dei quasi 14 milioni di giornate di congedo parentale erogate nel 2020 solo 1 milione e mezzo sono state chieste dai padri. Anche a fronte di un’opportunità (anzi: di un diritto) i papà hanno faticato a prendersela.***

Deve quindi essere sempre “lei”, la mamma, a scegliere il part time? Dicci la tua!

APPROFONDIMENTI

Il marito… aiuta?
Occhio al luogo comune!

Partiamo da un meme che gira in rete:

Can we all agree that cooking & cleaning is a basic life skill and not a gender role?” [Siamo d’accordo che cucinare e pulire siano abilità di base e non un ruolo di genere?”]

Siamo d’accordo, sì!
Solo questa convinzione basterebbe a correggere la frase della nostra vignetta, almeno introducendo il tema della reciprocità e della condivisione delle responsabilità di cura familiare.

Sta di fatto però che il cosiddetto carico mentale cioè il peso della gestione delle faccende familiari (compilare la lista della spesa, ricordarsi gli impegni dei figli, assistere gli anziani della famiglia, prenotare le vacanze…) ricade in maggioranza sulle spalle delle donne e abbiamo già visto come questo sia un enorme ostacolo per esempio al mantenimento di una posizione lavorativa.

Con questa vignetta vorremmo condividere una riflessione proprio sulla gestione del carico cognitivo che la maggior parte delle donne mette in atto quotidianamente.
Attenzione prima di tutto a non confondere i piani: il carico mentale sta nel pensare, gestire, organizzare -e spesso anche svolgere- le faccende familiari e non nello svolgere compiti pensati e organizzati da altri.
Inoltre lo sforzo per tenere insieme tutte le informazioni necessarie per una buona organizzazione familiare comporta un grande dispendio di energie che potrebbero essere impiegate diversamente e meglio.

È possibile ripensare in ottica paritaria i ruoli familiari e ripartire le responsabilità in maniera equa in famiglia? Dicci la tua!